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BIENNALE DI VENEZIA
Do-Ho Suh:
la massa diventa arte
di Pietro Del Soldà

«Il paradosso che unisce l'individuo e la massa, contro l'esaltazione dell'eroe, è il senso ultimo delle mie opere».
Inoltrandosi nella "Platea dell'umanità" della 49° Biennale, ci si imbatte nell'enigmatico rapporto tra individuo e collettività esposto dalle opere del coreano Do-Ho Suh. Distribuite tra il Padiglione Italia e quello coreano, le installazioni di Suh raccontano una massa indistinta. A cominciare da Floor, pavimento sorretto da innumerevoli sostegni che solo ad uno sguardo ravvicinato si scoprono per ciò che sono: fragili mani di minuscole figure umane che, insieme, sorreggono il peso della struttura. Alzando gli occhi da terra, avvicinandosi alle pareti, infiniti punti emergono alla vista come microscopici ritratti umani nell'opera Who am we? (Chi sono noi?) (nella prima foto). Nato trentanove anni fa a Seul, Do-Ho Suh vive oggi a New York, dove prosegue il suo sforzo di portare alla luce il dialettico rapporto tra l'individuo e la società di massa.

Chi sono noi?
Mister Suh, avvicinando gli occhi alla massa indistinta che lei rappresenta, emergono gli individui, i singoli membri del tutto. Ma è davvero sufficiente, nella realtà, approssimare lo sguardo alla massa per scorgere i singoli individui nella società che li ingloba e ne cancella le differenze?
La relazione tra individuo e collettività, nelle mie opere, è tradotta nel linguaggio visuale. Così da un lato è vero, come lei dice, che il mero avvicinamento fisico all'opera che lascia emergere un volto è semplificatore. E tuttavia, tale semplificazione avviene come traduzione in forma d'arte di qualcosa che riconosco essere assai più complesso. Del resto, le mie opere vogliono esporre la dialettica individuo-società, ma non per questo possiamo identificare i singoli volti che appaiono con persone reali.

C'è una stretta relazione tra la sua visione della società e l'idea di umanità che sta alla base di questa Biennale "Platea dell'umanità"?
Credo di no. L'idea di umanità, di multiculturalità di questa Biennale è troppo vasta e indefinita, e del resto le mie opere sono state realizzate prima e indipendentemente da questa esposizione. Sono stato invitato perché la mia opera si inserisce in questa idea generale di umanità. Il principio che informa le mie opere, come Floor ad esempio, è una semplice legge fisica che riflette perfettamente la legge della società. Le figure umane sono
fragili, si rompono facilmente, ma la loro unione consente di sorreggere il peso immenso della struttura sovrastante. La conclusione è ironica: per sostenersi, l'identità individuale
dev'essere parte di un grande gruppo, deve quasi sparire nella massa.

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In Occidente si è sempre guardato alle società asiatiche come modelli di omologazione in cui la massa schiaccia l'individuo. Qual è la sua posizione su questo?
In un certo senso questo è vero. Guardiamo per esempio all'architettura delle metropoli asiatiche, dove non esiste privacy: le porte nelle case sono trasparenti, in carta di riso, e lasciano intravedere le ombre di chi sta dall'altra parte. E tuttavia, dobbiamo
considerare che ogni cultura esprime un particolare rapporto tra individuo e collettività: se pur la singola persona nelle società asiatiche non è visibile allo sguardo occidentale, ciò non significa che non esiste l'individuo. In occidente, al contrario, l'idea di collettività scompare e proposte come questa "Platea dell'umanità" manifestano il tentativo di recuperare una visione
collettiva, se pur in senso multiculturale, diverso da quello asiatico.
Io credo comunque che la differenza tra i modelli di società sia graduale, né voglio prendere una posizione definitiva.
Sembrerebbe però che la sua idea di società richiami l'Oriente assai più che l'Occidente dove lei comunque vive e lavora.
Io voglio sospendere il giudizio e mostrare la dialettica paradossale tra l'uomo e il gruppo sociale cui appartiene. E' paradossale infatti come l'esposizione della massa nelle mie
opere sia un'affermazione del rispetto di ogni individuo: ciascuno è determinante affinché la struttura resista. Forse, in tal senso, si può dire che, inconsciamente, io mi riferisca ad un modello asiatico di società, dove le grandi masse tendono ad evidenziare l'eguale valore di ciascuno. Del resto sono un asiatico, e perciò mi allontano da un'idea occidentale di società dove il modello proposto è l'eroe, colui che emerge sugli altri, a spese degli altri.
La paradossale dialettica massa-individuo mostra invece come tutti siano egualmente indispensabili. Pur senza volermi schierare, sospendendo il giudizio, il mio sforzo è di rimanere fedele a questo paradosso.

Pietro Del Soldà
per gentile concessione di il Nuovo



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12 giugno 2001